Un test del sangue per capire se una gestante svilupperà la depressione post partum (Ppd). Lo evideniza uno studio su Neuropsychopharmacology, mostra che le donne che sviluppano questa condizione possono presentare nel sangue durante il terzo trimestre della gravidanza livelli caratteristici di alcune molecole (steroidi neuroattivi) derivate dall'ormone progesterone. Molecole che influenzano la risposta dello stress del cervello e la regolazione emotiva. Lo studio è stato condotto dal neuroscienziato italiano Graziano Pinna dell'Università dell'Illinois a Chicago nel suo laboratorio, in collaborazione con la Weill Cornell Medicine.
"La scoperta di questi biomarcatori - dice Pinna all'ANSA - rappresenta un passo in avanti per capire non solo le basi biologiche della Ppd, ma soprattutto per sviluppare mezzi di prevenzione e nuove strategie terapeutiche".
I ricercatori hanno coinvolto 136 donne che non erano depresse durante la gravidanza e misurato i livelli di steroidi neuroattivi nei loro campioni di sangue in momenti specifici durante il secondo e terzo trimestre. Hanno anche fatto un follow-up con dati clinici fino a nove mesi dopo la nascita. 33 partecipanti hanno sviluppato sintomi di depressione nel periodo postpartum.
Gli esperti hanno puntato l'attenzione su due steroidi neuroattivi derivati dal progesterone che sembrano influenzare il rischio di sviluppare Ppd: pregnanolone e isoallopregnanolone. Il primo agisce sul recettore Gaba-A per fornire effetti calmanti e ridurre lo stress. Al contrario, l'isoallopregnanolone interagisce con il recettore Gaba-A per aumentare i sintomi depressivi. Lo studio ha determinato che le neomamme con depressione post partum nel terzo trimestre di gravidanza avevano un rapporto pregnanolone/progesterone più basso e un rapporto isoallopregnanolone/pregnanolone più alto rispetto alle altre. Elevati livelli di progesterone in fase avanzata di gravidanza erano già stati associati a un rischio più elevato di Ppd.
"Se fossimo in grado di replicare questi risultati, allora questo potrebbe ragionevolmente diventare un test clinico che potrebbe prevedere lo sviluppo della malattia futura", afferma la coautrice dello studio Lauren Osborne, della Weill Cornell Medicine.
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