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Responsabilità editoriale di ASviS
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La transizione ecologica non è lineare né facile. È un percorso fatto di cambiamenti nelle filiere globali, investimenti incerti e scelte politiche coraggiose. Forse, a volte, non è stata nemmeno raccontata nel modo più efficace, finendo per apparire, agli occhi di molti, come un progetto elitario, distante, svantaggioso per i ceti popolari. I timori sono noti: l’aumento dei prezzi, la perdita di lavoro nei settori tradizionali, le auto elettriche troppo costose, la dipendenza strategica dalla Cina. In Europa, poi, la narrazione è spesso segnata da una sorta di disillusione: c’è chi accusa Bruxelles di essersi infilata in un percorso che penalizza il suo tessuto industriale, mentre Pechino e Washington, forti di una maggiore libertà di manovra e di politiche industriali aggressive, approfittano della situazione. È una storia che si ripete anche nel campo dell’intelligenza artificiale: l’Europa, si dice, regola, mentre gli altri corrono.
Eppure, nonostante tutto, la transizione energetica è un percorso irreversibile. Mentre la crisi climatica ci sbatte in faccia, giorno dopo giorno, i suoi effetti più nefasti, c’è chi resiste a tornare indietro e ne coglie i benefici. I costi delle rinnovabili sono scesi, i posti di lavoro verdi crescono più velocemente di quelli fossili e le città che investono in tecnologie non inquinanti hanno benefici tangibili in termini di qualità dell’aria, salute pubblica e innovazione. Secondo i dati del think tank energetico Ember, nel 2024, per la prima volta dagli anni ‘40, il mondo ha utilizzato fonti di energia pulita per soddisfare oltre il 40% del proprio fabbisogno elettrico. E ciò si tradurrà in indiscutibili vantaggi per i consumatori: con un sistema energetico basato prevalentemente su fonti rinnovabili e con un ruolo marginale delle centrali a gas, stima un recente studio del Centro Res, entro la metà del secolo il prezzo medio nazionale dell'elettricità potrebbe scendere fino a un terzo rispetto ai livelli del 2019.
In questo contesto, il ritorno dei dazi come strumento politico e commerciale, deciso dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, riapre una frattura che sembrava appartenere al passato. Come ha osservato il giornalista Ezio Mauro su La7, “Trump non ascolta le lezioni della storia”: dimentica che negli anni ’30 del secolo scorso fu proprio l’innalzamento delle barriere commerciali, attraverso lo Smoot-Hawley Act, a innescare una spirale di crisi, ritorsioni e sfiducia che contribuì alla Grande Depressione.
La stagione che si è aperta il 2 aprile, con l’annuncio trumpiano di una messe di dazi, anche se ora congelati per 90 giorni (Cina esclusa), sarà caratterizzata, a meno di clamorose inversioni a U, da una nuova guerra commerciale tra le due superpotenze. La risposta di Pechino e la controrisposta di Washington ha solo confermato la portata di un conflitto destinato a durare. Ancora più significativo è stato l’annuncio cinese di una possibile limitazione all’esportazione di terre rare, materiali strategici indispensabili per numerose tecnologie, a partire da quelle utilizzate nella transizione energetica.
Ma non si tratta, ovviamente, solo di numeri o ritorsioni: se si riaccende la tentazione del protezionismo, è la logica stessa della cooperazione internazionale a essere rimessa in discussione. Anche perché la transizione si regge su catene di fornitura globali: pannelli fotovoltaici, batterie, turbine eoliche e semiconduttori dipendono da una geografia frammentata, in cui la Cina gioca un ruolo dominante.
Solo due mesi fa, dal palco del World Economic Forum di Davos, il direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) Fatih Birol era stato chiaro:
La transizione energetica è entrata in una nuova fase: non è più una scommessa, ma un dato di fatto. I Paesi che proveranno a rallentarla, proteggendo le industrie del passato, perderanno competitività. La storia non aspetta.
Birol trasmetteva un messaggio chiaro: resistere al cambiamento potrebbe penalizzare proprio chi cerca di difendersi. Ma citava anche i venti contrari, concretizzatisi poche settimane dopo con Trump che sovverte regole e accordi, scuote l’ordine internazionale, firma ordini esecutivi per aumentare la produzione di carbone, mentre la rivista Scientific Americanci avverte che nuove barriere commerciali potrebbero comunque rallentare in modo significativo la diffusione delle rinnovabili:
Rendendo più costosi i pannelli solari, più rare le batterie e più incerti gli investimenti, i dazi rischiano di trasformarsi in un freno strutturale proprio quando servirebbe accelerare.
Non manca, però, chi invita a ridimensionare l’allarme sull’impatto dei dazi. Secondo Climate Change News, per esempio, la quota degli Stati Uniti nel commercio globale delle tecnologie pulite è troppo marginale per influenzare davvero la traiettoria globale della transizione. Andreas Sieber, direttore associato dell’organizzazione ambientalista 350.org, scrive:
I dazi di Donald Trump danneggeranno l'economia statunitense e le famiglie lavoratrici. Ma, a differenza di quanto alcuni potrebbero temere, i dazi non fermeranno l'energia eolica e solare. […] A parte i pinguini antartici, la transizione energetica globale è al sicuro dai dazi di Trump.
Sempre Sieber sottolinea anche che gli effetti sulle disuguaglianze sociali saranno reali, perché l’aumento dei prezzi e la tensione sui mercati colpiranno in modo sproporzionato i lavoratori a basso reddito e le fasce più fragili della popolazione. In altre parole, la transizione può forse resistere ai dazi, ma rischia di non mantenere le promesse di giustizia sociale.
La minaccia dei dazi e il riacutizzarsi delle tensioni globali rischiano di avere un effetto negativo anche in Europa, cioè quello di offrire un alibi per rallentare, modificare o addirittura smontare pezzi del Green Deal. In alcuni ambienti politici e imprenditoriali cresce la convinzione che, di fronte a una nuova fase di instabilità e competizione internazionale, sia necessario rivedere gli obiettivi ambientali. Nei giorni scorsi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha dichiarato che “serve una profonda revisione del Green Deal europeo”, sottolineando come le politiche ambientali imposte da Bruxelles rischino di penalizzare l’economia reale.
È una posizione che riflette un malcontento già emerso nei mesi scorsi durante il dibattito sul pacchetto Omnibus, la proposta della Commissione Ue per semplificare le regole sulla rendicontazione ESG (ambientale, sociale, di governance) per le imprese, mantenendo però gli impegni sul cambiamento climatico. Sulla spinta delle richieste di alcune associazioni imprenditoriali, il pacchetto è stato significativamente alleggerito. Cresce però la convinzione che, pur partendo da esigenze legittime, ossia evitare oneri burocratici eccessivi, l’Ue si sia spinta troppo avanti: la revisione, infatti, rischia di indebolire l’ambizione originaria del documento, spingere verso un approccio più difensivo, quando servirebbe piuttosto una visione trasformativa, ma soprattutto generare incertezza tra gli operatori, specialmente quelli finanziari, visto che i loro obblighi di valutazione delle strategie di sostenibilità delle imprese che ad essi si rivolgono restando invariati, e l’uso di rendicontazioni “volontarie” possono rendere i dati non comparabili.
Ma il vero banco di prova sarà il futuro. Come reagirà l’Europa a una nuova fase di protezionismo globale?Secondo un’analisi pubblicata da Affari Internazionali, le misure annunciate dagli Usa mettono sotto pressione la strategia industriale europea, ma potrebbero anche costituire uno stimolo per accelerare la costruzione di una vera politica industriale verde e autonoma sul piano energetico. Ci sono tre leve: rafforzare gli investimenti comuni, semplificare le regole sugli aiuti di Stato e, soprattutto, ampliare la rete di accordi commerciali dell’Unione diversificando i partner. Scrive Paolo Guerrieri, consigliere scientifico dell’Istituto affari internazionali:
La risposta dell’Europa alla guerra dei dazi dovrebbe essere un rafforzamento della propria capacità di agire nel mondo, non un ripiegamento. Più apertura, più strategia, più coerenza.
È una visione che trova pieno riscontro anche nelle parole del direttore scientifico dell’ASviS, Enrico Giovannini, che ha invitato l’Unione europea a rispondere non con chiusure ma con nuove relazioni economiche.
Una risposta può essere puntare su nuovi mercati, in particolare nei Paesi emergenti e in via di sviluppo, l'Italia è il quarto Paese esportatore al mondo e ogni volta ci flagelliamo sul tema della competitività, ma le nostre imprese sono straordinarie e il sistema bancario deve accompagnare e favorire questo cambiamento.
Bruxelles ha già cominciato a elaborare alcune prime contromisure ai dazi: prima del dietrofront di Trump, tra le opzioni sul tavolo era spuntato anche il cosiddetto “bazooka commerciale”, uno strumento pensato per rispondere a pratiche economiche aggressive da parte di Paesi terzi. Ma sarà nel medio periodo che l’Unione si troverà di fronte a scelte determinanti: non solo per riaffermare il proprio ruolo economico, ma soprattutto per consolidare la sua missione storica di tutela dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della promozione dello sviluppo sostenibile. Principi, sanciti nel Trattato di funzionamento dell’Unione europea e che rappresentano il cuore dell’identità europea.
di Andrea De Tommasi
Copertina: Ansa
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