È stato rinviato a giudizio
l'avvocato Matteo Minna, l'amministratore di sostegno di Paolo
Calissano, l'attore genovese stroncato a Roma il 29 dicembre
2021 da un mix di farmaci antidepressivi. Minna, difeso dagli
avvocati Enrico Scopesi e Maurizio Mascia, è accusato di aver
circuito l'attore e di avergli sottratto oltre 500 mila euro. Lo
ha deciso la giudice per l'udienza preliminare Angela Nutini. Il
processo inizierà il 3 luglio. Oltre a Calissano (il fratello
è parte offesa ed è assistito dall'avvocato Santina Ierardi),
l'amministratore di sostegno avrebbe sottratto soldi a una donna
con problemi di dipendenze e ad altri tre amministrati (alcuni
difesi dall'avvocato Ilaria Tulino). Fuori dall'aula Roberto
Calissano, fratello di Paolo, che si è detto contento del rinvio
a giudizio. "Ma lo sarei stato di più - ha spiegato - se fosse
stato vivo mio fratello, se fosse stato lui a farsi le sue
ragioni. Purtroppo lui non c'è più e penso che sia morto anche
per un tormento interiore per tutta questa vicenda. Lui era
assolutamente ignaro di quello che avveniva coi suoi fondi e gli
è stato fatto credere che era colpa sua invece è stata una
spoliazione da parte di altri. E di quel patrimonio svanito ne
deve rispondere qualcuno". Oltre un anno fa il giudice aveva
disposto gli arresti domiciliari con l'accusa di peculato
aggravato, falsità ideologica - perché avrebbe redatto false
relazioni di sintesi sull'andamento delle amministrazioni di
sostegno a lui affidate -, falsa perizia per errore determinato
da inganno perché avrebbe indotto in errore il consulente
incaricato dal giudice tutelare di Genova di esaminare la
gestione patrimoniale e la regolarità dei rendiconti presentati
in relazione agli incarichi ricevuti. L'amministratore di
sostegno è anche accusato di circonvenzione di incapace e
omissione di atti d'ufficio. Per gli investigatori della Guardia
di finanza, l'avvocato avrebbe prelevato ripetutamente dai conti
correnti degli assistiti cifre che poi sarebbero confluite sul
suo conto personale. Tali movimenti di denaro, spesso non
rendicontati al giudice tutelare, venivano giustificati quali
pagamenti di fatture (false) per compensi per assistenza legale
o per altre prestazioni professionali di cui non è stata
rinvenuta traccia.
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