(di Luciano Fioramonti)
L' attenzione ai particolari messi in risalto da oggetti in primo piano sfuocati, le immagini riflesse in uno specchio e dalle vetrine, il vapore dei tombini, la patina evanescente della nebbia che fa da sfondo ai soggetti e l' uso del colore in un epoca in cui era considerato commerciale. Negli anni d' oro della verità e del realismo inseguiti dalla street photography, Saul Leiter cercava di cogliere l' aspetto meno evidente, più intimo e poetico del mondo su cui puntava lo sguardo. Così il grande fotografo e pittore americano viene raccontato a Monza dalla prima grande mostra italiana ''Una finestra punteggiata di gocce di pioggia'', prodotta da Vertigo Syndrome in collaborazione con diChroma photography, che riunisce nel Belvedere della Reggia fino al 27 luglio 126 fotografie in bianco e nero, 40 fotografie a colori, 42 dipinti, materiali d'archivio, un filmato e riviste d'epoca originali. Leiter era un antidivo e non aveva l' ossessione della fama. Quando morì nel 2013, pochi giorni prima di compiere 90 anni, si scoprì che la maggior parte delle migliaia di scatti accumulati in cinquanta anni di carriera era rimasta nell' archivio. In seguito fu trovata la produzione meno conosciuta dell' artista, nudi in bianco e nero, scattati soprattutto tra la fine degli anni '40 e i primi anni '60, frutto delle collaborazioni tra Leiter e le donne della sua vita. "Non ho una filosofia - disse di sè -. Ho una macchina fotografica. Guardo attraverso la macchina fotografica e scatto foto. Le mie fotografie sono la minima parte di ciò che vedo che potrebbe essere fotografato. Sono frammenti di possibilità infinite".
Leiter era nato a Pittsburg, in Pennsylvania, nel 1923. Il padre, rabbino, avrebbe voluto che seguisse le sue orme. Nel 1946, invece, il giovane Saul si trasferì a New York per diventare pittore. Qui, oltre agli artisti dell' espressionismo astratto conobbe anche il fotografo William Eugene Smith che lo incoraggiò a scattare in bianco e nero. Due anni dopo cominciò a collaborare con altri grandi della fotografia del calibro di Robert Frank e Diane Arbus e a dedicarsi al colore da pioniere, molto tempo prima che venisse accettato e adottato dai colleghi, impiegandolo come elemento espressivo, saturando le sue immagini con tonalità che trasformano le scene di strada in composizioni astratte. A quel periodo risalgono i primi lavori per riviste di moda come Esquire e Harper's Bazaar, e nei venti anni successivi per Show, Elle, British Vogue, Queen e Nova. Il suo modo di 'sbirciare' la vita e frugare nei momenti della quotidianità per metterne in luce gli aspetti poetici lo rese unico tra i colleghi della Scuola di New York impegnati nella narrazione della vita metropolitana della Grande Mela. "Leiter si divertiva con ciò che vedeva - osserva Anne Morin, curatrice della mostra -. Non era interessato al carattere egemonico di New York o alla sua mostruosa modernità. Inventava giochi ottici, intrecci di forme e piani che nascondono e rivelano ciò che giace negli intervalli, nelle vicinanze, nei margini invisibili". Di Leiter emerge, in particolare, come la sua sensibilità pittorica gli abbia permesso di avvicinarsi alla fotografia a colori ''con una sofisticazione senza precedenti, trattando ogni fotogramma come una tela''. A differenza dei suoi colleghi che enfatizzavano la nitidezza, sottolinea Morin - ''lui ha abbracciato l'ostruzione, fotografando attraverso finestre appannate, tessuti e condizioni meteorologiche che altri fotografi evitavano. Questi elementi sono diventati parte integrante del suo stile compositivo, creando immagini multistrato che sembrano più dipinti che fotografie''. Le sue immagini ''durano quanto il battito di un ciglio, posizionate sul bordo di qualcosa. Sono istantanee, forme brevi, frammentate, come annotazioni, dichiarazioni di realtà: Il gesto di Leiter è quello di un calligrafo quando fotografa veloce, preciso, senza scuse. Il suo lavoro suggerisce che la bellezza non esiste nei grandi momenti, ma negli intervalli silenziosi della vita di tutti i giorni''. Eppure, nonostante i suoi scatti siano presenti nelle collezioni di musei di spicco americani, è rimasto in ombra per due decenni fino al 2006 quando la monografia "Saul Leiter. Early Color" ha segnato la riscoperta internazionale del suo lavoro. Per Martin Harrison, editore e autore di quella pubblicazione, ''Leiter ha fornito un modo alternativo di vedere, inquadrare e interpretare la realtà. Ha cercato momenti di quieta umanità nel vortice di Manhattan, forgiando una pastorale urbana unica dalla più improbabile delle circostanze''.
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