KATJA PETROWSKAJA , ''FORSE ESTHER''.
Coloro che vissero le grandi tragedie del Novecento, a cominciare dall'Olocausto, e passarono il loro tempo a portarne in giro testimonianza diretta, sono ormai morti quasi tutti, tranne qualcuno che le visse bambino. In un momento di crisi come il nostro, che sembra dar fiato a estremismi radicali violenti e negazionisti, diventa importante trovare un modo nuovo per non dimenticare e far sapere. Katja Petrowskaja è nata nel 1970, ha 45 anni e ci offre una sua fascinosa e coinvolgente soluzione, che ha le proprie radici in racconti documentari come quelli di Sebald o ricerche come quelle di Safran Foer e tanti altri sulle proprie origini e i luoghi di provenienza.
Il suo ''Forse Esther'' è allora la storia di una sfida contro il tempo, quando ''non solo le persone erano scomparse, ma non era quasi rimasta traccia della loro esistenza'' e la storia ufficiale sembra voler dimenticare troppe cose. Così la scrittrice si trova a fare i conti con impressioni e intuizioni più che con ricordi, con echi più che parole e testimonianze, per ricostruire un passato nebbioso e sfuggente, vivo ma quasi inafferrabile, difficile da mettere a fuoco. E tutto torna col fatto che la prima parte sia intitolata ''Google sia lodato''. E' così che si arriva al 29 settembre 1941 quando una vecchia donna ebrea ucraina che cammina con difficoltà esce da casa sua in Via Engels n. 11 e vaga per le strade di Kiev piene di militari nazisti, probabilmente non proprio in sé e va incontro a un drappello di SS, chiedendo a un ufficiale cosa stia accadendo, dove debba andare o magari dove fosse Babij Jar. La risposta fu una rivoltellata, ''la noncuranza di un atto di routine, senza interrompere la conversazione, senza voltarsi del tutto, così, incidentalmente''. Era il giorno in cui c'era stato l'ordine che ''tutti gli ebrei della città di Kiev'' si ritrovassero a una data ora in un dato posto, senza sapere che sarebbero stati portati e massacrati in massa a Babij Jar (circa 35 mila).
La donna forse si chiamava Esther, era la bisnonna della Petrowskaja, nonna di suo padre che non ne ricorda con sicurezza il nome, perchè i giovani la chiamavano sempre semplicemente babuska (nonna) e i giovani mamma, e questo suo essere quasi senza nome e la sua fine violenta e casuale, è emblematica di tutto quanto questo libro cerca di farci capire e rivivere, delle tragedie dei totalitarismi feroci del Novecento.
Per chi è ucraino, infatti, non ci furono solo le persecuzioni e i lager nazisti, ma anche poi le accuse, le condanne e gli internamenti nei gulag sovietici. E in questo, nel suo spaziare nel tempo e tra vite dal destino tragico, sta il valore e la novità del racconto della Petrowskaja, che, alla distanza, non fa sottili e fittizie distinzioni, ma racconta vicende che si scontrano con la cecità del potere intento a costruire sui cadaveri un mondo nuovo, che fosse ariano o del sol dell'avvenire. E qui ecco la vicenda di uno zio della protagonista, Judas Stern che, probabilmente spinto dai servizi di polizia segreta, popolarmente chiamati "gli Organy, perché avevano potere sulla nostra sfera interna'', uccise nel 1933 a mosca un diplomatico tedesco e venne poi condannato con uno spettacolare processo farsa. Un libro importante, doloroso, intimo e poetico, costruito su assenze e vuoti, cercando di far luce, quasi con un indagine gialla, su rimozioni, paure e violenze, e non a caso scritto in tedesco (''Se addirittura io uso il tedesco, allora davvero nulla e nessuno è obliato'') in bilico tra evocazione e realismo, lucido e sofferente, che dà sempre conto di sé, mai retorico, anzi asciutto e sempre con lo sguardo puntato al suo fine.
Riproduzione riservata © Copyright ANSA