Paolo Petroni PIERRE MICHON, ''LA GRANDE BEUNE'' (ADELPHI, pp.
76 - 11,00 euro - Traduzione di Giuseppe Girimonti Greco) Questo lungo, intenso racconto fantasia sul piacere doveva essere l'inizio di un romanzo mai compiuto intitolato ''L'origine dle mondo'', proprio come il celebre quadro di Gustave Courbet, del quale ha la stessa sfrontatezza, passione, se si vuole eccesso ma anche tutta l'inevitabile umanità, che ridimensiona e dà senso, grazie alla straordinaria abilità di Michon con la scrittura.
Lo scrittore francese, classe 1945, ha cominciato a
pubblicare a 40 anni, esordendo con quelle ''Vite minuscole''
che sono apparse subito un piccolo capolavoro, un gioco
biografico e autobiografico a mosaico, di personaggi prigionieri
del proprio destino e che solo nella verità e qualtià della
scrittura, della letteratura trovano la propria verità e magari
illuminano appunto la Storia. Sono vite in cui l'autore si cala,
che abita e racconta mettendosi in gioco, come per rispecchiarsi
in esse e trovarvi se stesso, come ogni lettore vi ritroverà
qualcosa di sé. E lo fa appunto con una lingua ricca e
letterariamente intarsiata, densa e dal ritmo intenso della cui
bella resa in italiano bisogna dar lode al traduttore Girimonti
Greco, che non ci fa perdere nemmeno una piega del racconto e
del quotidiano e assieme delle fantasie, delle ossessioni, del
vagabondare in seguito alla sensuale folgorazione dell'io
narrante.
Si tratta di un maestro al suo primo incarico, mandato nel
1961 in una scuola elementare del borgo piovoso di Castelneuve,
sul bordo della falesia sotto la quale scorre la Grande Beune,
nel Perigord. Preso alloggio alla pensione Chez Hélène, dove la
sera Jean il pescatore e altri personaggi si ritrovano a bere,
affronta la scuola e, racconta, ''guardavo, lungo tutta una
fila di attaccapanni,i loro giacconi appesi che ancora fumavano
per le piogge del mattino, simili a paltò di un esercito nano
che si asciugano in un bivacco'', ma anche, a ricreazione, ''mi
sedevo alla cattedra, stendevo le gambe e mi davo a un'altra
devozione, a un'altra violenza. Pensavo alla tabaccaia'', di cui
ha in classe i figlio di sette ani Berenard, con cui finisce per
prendersela.
Si tratta di Yvonne, tra i 30 e 40 anni,''alta e bianca era
puro latte. Era abbondante e florida come le Uri di Lassù, vasta
ma come strozzata dalla vita stretta; se gli animali hanno uno
sguardo che non smentisce il loro corpo, era un animale; se le
regine hanno un modo tutto loro di portare in cima alla colonna
del collo una testa piena ma pura, clemente ma fatale, era una
regina''. Un'apparizione esaltante che mette ''nel sangue
pesieri abbominevoli'' perché ''tutto in lei era conoscenza del
piacere ... e questo piacere era vivo come una ferita; lei lo
sapeva, era qualcosa che portava con ardimento, con passione''.
E' solo l'inizio di un'ossessione, travolgente e di una vitale
pienezza di cui il maestro resta prigioniero: la sogna, la
immagina, la segue e cerca di incontrarla nei suoi percorsi come
casualmente, la spia tra fantasie e delusioni, non meno però
esaltanti, quando ne scopre il segreto di una sua
arrendevolezza. Chi ci va di mezzo è la povera e anche lei
seducente ragazza Mado, con cui ha scomodi amplessi sui sedili
della sua Dauphine, con sempre in mente l'altra.
Il paese è vicino alle celebri grotte di Lascaux, con i loro
grafiti preistorici, così che al nostro quelle figure
sciamaniche appaiono come un segno del destino in cui si perde
il presente, il quotidiano, e tutto acquista la trascendenza di
un simbolo, una valenza quasi mitica. E Yovonne gli appare come
la Sibilla Cumana. Michon non costruisce una vera e propria
storia, ma ci porta nella testa, e nei sensi del suo
protagonista, ci coinvolge nella sua sensuale ossessione, con
una scrittura che sembra tradizionale, qualcuno a scritto
flaubertiana, ma vive di una sorta di scarto e accumulo, di
articolazione che potrebbe diventare ridondante ma sempre lo
evita per realismo, precisione e immediatezza. E in bilico tra
realtà e fantasia la vita scorre, proprio come la Grande Beune.
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