(di Daniela Giammusso) "Se mi guardo
indietro, non cambierei un singolo dettaglio. Tutte le decisioni
che ho preso, tutti gli sbagli che ho fatto, ripeterei tutto.
Però non ho realizzato un grande sogno: imparare a suonare il
violino". Non perde la battuta Eugenio Barba, l'ultimo maestro
teatrale d'Occidente, allievo di Jerzy Grotowsky, soprattutto
fondatore di quel progetto unico di Teatro di ricerca
multiculturale che è la compagnia dell'Odin Teatret. Nata a
Oslo, in Norvegia, nel 1964, poi stabilitasi in Danimarca a
Hostelbro, cresciuta facendo del training dell'attore il suo
fulcro tra collaborazioni importanti anche con Jacques Lecoq,
Dario Fo, Krejca, Luca Ronconi, il Living Theatre, il prossimo
anno l'Odin compirà 60 anni e festeggia con un progetto lungo un
anno, nato in collaborazione con il Teatro di Roma. "E' il segno
che il teatro comincia a ripartire sul serio", commenta la
commissaria straordinaria del TdR, Giovanna Marinelli. Si parte
dunque il 20 maggio, alle Olimpiadi del teatro 2023 a Budapest,
con la prima mondiale di Anastasis (Resurrezione), inno al
potere dell'esistenza e omaggio all'arte, in cui Barba ha
riunito 70 artisti della Scuola internazionale di antropologia
teatrale fondata nel 1980. Il progetto prosegue poi nel 2024, al
teatro India, con un mese diviso in due fasi dedicato al mito
creativo e alla pratica pedagogica della compagnia (8-31
maggio). Si va dal debutto di Una giornata fatale del danzatore
Gregorio Samsa, evoluzione dello storico spettacolo firmato da
Barba con il protagonista Lorenzo Gleijeses e Julia Valery, al
calendario di masterclass, presentazioni e incontri. Nella
seconda fase, l'evento celebrativo organizzato da un comitato
scientifico, il ritorno de La casa del sordo. Capriccio su Goya
del 2019 e la prima nazionale di Compassione. Tre panorami di
speranza in primavere. "Mi sento come il figliol prodigo che
torna a casa dopo 23 anni", sorride Barba, ricordando la
collaborazione con Mario Martone. "Sento che riusciremo a
ricreare lo stesso fermento - dice - In Scandinavia, si dice che
una persona è morta perché 'era sazia di vita'. Ecco, io sono
più che sazio. Ma quando la gente mi chiede perché continuo, mi
viene in mente quando da ammiravo persone di grande valore che
avevano un capitale: il prestigio. È sempre stata la mia
ossessione riuscire a sfruttare al meglio il mio prestigio.
Ovviamente, non per me". Tornando poi a quel primo "gruppo di
attori" che si formò insieme a "persone rifiutate
dall'Accademia, a chi aveva avuto problemi di tossicodipendenza
o aveva creduto nella rivoluzione ed era rimasto ai margini",
ripensa, "per noi, il teatro era un rifugio. Sono cresciuto tra
i poveri del teatro, non i ricchi, tra quei gruppi che non hanno
riconoscimenti e devono combattere". Oggi? "È il momento di far
esplodere le cittadelle del teatro, perché questo è il bello
oggi, che siamo un arcipelago", risponde. Anche se "il mondo è
molto cambiato - aggiunge - e mi appare confuso per questa
invasione della tecnologia che a volte toglie dignità. Mi fa
molto dolore, ad esempio, vedere gli attori che recitano con il
microfono. I giovani non sfidano più delle loro possibilità, non
solo espressive ma spirituali". Ma di cosa il maestro è più
soddisfatto in questi sessant'anni? "Se riesco a far collaborare
la mano sinistra e la destra, chi ha e chi non ha - sorride -
L'utilità dell'Odin Teatret, la sua vocazione, era unire le
diversità nella nostra professione. La fatica? Fondamentale. Noi
facevamo anche quattro, cinque ore di training. Non che gli
attori poi fossero migliori, ma perché continuando esausti
scoprimmo che arrivava un altro tipo di energia. Ecco, se l'Odin
Teatret resiste ancora dopo tanti anni, forse è perché ci siamo
abituati a lavorare stanchi".
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