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In evidenza
In evidenza
(di Francesco De Filippo)
(NICO PITRELLI E MARIACHIARA
TALLACCHINI, MANIFESTO PER UN'EDUCAZIONE CIVICA ALLA SCIENZA,
202 pagg; 18 euro) - Una società basata sul sapere scientifico
che sia però anche democratica. Sembra essere questa la comunità
cui anelano le popolazioni occidentali, prescindendo dalle
urlate e variegate istanze dei leoni da tastiera. Semplice a
dirsi, molto complesso il farlo. La pandemia ha mostrato la
corda di un aspetto del più vasto mondo della science policy
(politica della scienza): le modalità con cui questa comunica
con e ai cittadini. Dunque, attuale e necessario è il "Manifesto
per un'educazione civica alla scienza", scritto da Nico
Pitrelli, responsabile comunicazione della Sissa di Trieste, di
formazione scientifica, e Mariachiara Tallacchini, docente di
Filosofia del Diritto all'Università Cattolica di Piacenza.
Un libro - con corposa bibliografia - che è un excursus a volo
d'uccello sul rapporto tra scienza e collettività e (ambisce a
diventare) punto di riferimento per studiosi e politici.
Non avaro di autocritica dove necessaria, nella visione di una
società trasparente, chiara, sincera, il Manifesto ricorda che
sin dalla fondazione della British Association for the
Advancement of Science (1831) e dell'American Association for
the Advancemente of Science (AAAS, 1848), la scienza tenta
continui approcci per relazionarsi con i "profani", mal celando
il pregiudizio di detenere (e voler esercitare) un potere. La
cultura in materia appartiene alle due suddette principali
scuole di pensiero, della Gran Bretagna e degli Stati Uniti.
Entrambe basate su impliciti presupposti di correttezza morale
individuale, integrità delle organizzazioni scientifiche e
inconfutabili competenze. Solo verso la fine degli anni '50 del
secolo scorso l'impostazione ha una virata democratica, anche
grazie al filosofo ungherese Michael Polanyi e al sociologo
americano Robert Merton. Fin quando nel 2005 l'epidemiologo
della Stanford University John Ioannidis non rese noto che i
casi di fabbricazione e falsità dei dati e di irriproducibilità
delle conclusioni degli articoli pubblicati su riviste
scientifiche ammontavano all'esorbitante cifra dell'80 per
cento.
E' passato tanto tempo, la situazione è migliorata ma è
rimasta irrisolta, le domande sono sempre le stesse: gli
scienziati devono entrare attivamente nella contesa politica o
tale coinvolgimento ne compromette l'obiettività? Quali sono le
corrette modalità per comunicare con i cittadini? Interrogativi
quanto mai attuali, vista la disastrosa comunicazione della
scienza nel periodo della pandemia. La politica ha cercato
disperatamente nella scienza le risposte granitiche che
avrebbero rassicurato i cittadini, ma gli scienziati vagolavano
nell'incertezza, sostantivo che non compare nel vocabolario
della politica. E nemmeno nelle ammissioni degli scienziati. Ma
comunicare sicumere e superiorità tanto finte quanto presuntuose
ha soltanto creato disorientamento e panico nei cittadini,
lasciando spazio a variopinti complottismi e profonde
lacerazioni sociali. Con relativo discredito nello Stato e nella
Scienza. Certo, è difficile indicare un modello: non ha
funzionato quello basato sul pensiero che i cittadini non
possono capire e non ha funzionato nemmeno quello contrario, a
marca svedese durante la pandemia, che non prevedeva obblighi.
La soluzione? La scienza progredisce per tentativi, ripone
nell'incertezza e nella costanza la sua forza, riconoscere
questi limiti con i suoi errori può essere il primo passo per un
sapere scientifico capace di apparire affidabile. Animato dal
fondamentale principio europeista di precauzione, nella
prospettiva di meglio proteggere i cittadini, e nella speranza
che prossima pandemia trovi tutti più preparati
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