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(di Paolo Petroni)
NADIA TERRANOVA, ''QUELLO CHE SO DI
TE'' (GUANDA, pp. 264 - 19,00 euro) - A Nadia Terranova nasce
una figlia e questo avvenimento che guarda al futuro, allo
stesso tempo la proietta nel passato, e come esprimesse la
necessità, per andare avanti, di fare i conti con storie di
famiglia che, evidentemente, hanno sempre fermentato dentro di
lei: ''Mi illudo che potrò controllare gli anni che verranno, se
sarò brava a scavare nel passato''. La ricostruzione riguarda in
particolare la sua linea di ascendenza femminile, madre, nonna e
specialmente bisnonna: ''Il nome con cui la chiamo è Venera,
l'accento sulla prima sillaba e la a finale, come una dea o un
pianeta che hanno deciso di barare e cambiare le carte in
tavola''.
E' già in questa annuncio inziale la dichiarazione che il suo
raccontare è comunque opera letteraria, che delega a quella
parte di finzione, che ricostruisce l'ignoto, la forza di dargli
una verità e un senso nonostante tutto: ''scrivere è creare un
incantesimo: se lo scrivo accade. Scrivere è spezzare un
incantesimo: se lo scrivo, non accade più. E' cercare un varco
tra mia madre che legge i mei libri e li sconfessa: non è vero
che accadde così, te lo sei inventato, e mio marito che incalza:
forza, inventalo meglio, inventalo di più''.
Venera è stata chiusa in manicomio, nel 1928 per pochi giorni si
scoprirà, ma il fatto resta un segno nefasto, un precedente
pericoloso, e allora ecco che scatta questa indagine, perché
questo è il voler andar oltre la mitologia famigliare, tra
ricordi, testimonianze, documenti, visita dei luoghi, certezze e
supposizioni, nel susseguirsi di carte che vengono alla luce e
documentarsi su cure e medicinali d'epoca. La struttura e
l'intima ragione è praticamente la stessa del bel libro di Maria
Grazia Calandrone ''Dove non mi hai portata'' e quindi il segno
ancora una volta di una necessità universale di sapere, in
questi due casi con un tocco di poliziesco, di far luce quanto
più c'è qualcosa che appare inquietante e non risolto nel nostro
passato personale, perché è quello che sta alla base del nostro
essere. Allora, dopo tanto vagare tra notizie non verificabili e
riscontri possibili, ecco che arriva la voce stessa di Venera a
parlarci, a raccontarci la sua verità attraverso quanto raccolto
e trascritto in cartella clinica dal medico della clinica
Mandalari, primo nucleo di quello che diverrà il manicomio di
Messina.
Il gioco emotivo del libro, quel che lo rende non un racconto
privato, è nel continuo confronto e dissidio tra la donna mamma,
che deve spezzare quella maledizione per cui si teme qualsiasi
donna di famiglia possa impazzire, e la scrittrice, la creatrice
che ne parla e vuole andar oltre per capire con la forza
veritiera dell'arte, che si confronta con la Dok, che in rete
accusa tutte le madri di ogni colpa con qualche eccesso
semplificatorio.
Del resto c'è realtà tragica e il suo versante simbolico. Venerà
finisce rinchiusa perché non sopporta di aver perso la seconda
figlia che aveva in grembo, cadendo sugli spalti di un Circo per
rincorrere la prima. Venerà esce dai sogni della protagonista
quando le nasce la figlia, ma da quel momento le compare sul
viso una macchia scura, Il passaggio tra i 37 e i 38 anni, l'età
in cui Venera viene rinchiusa, diventa una nefasta scadenza,
segnando altre morti nella vita della famiglia, compreso il
padre della narratrice. E così via in una serie di rimandi e
situazioni, forse perché ''in Sicilia i fantasmi non se ne
vanno, come i sentimenti più forti non lasciano più chi li ha
provati una volta'' e che sarebbero anche altri, più allegri,
''se ora fossi l'autrice di un romanzo d'invenzione'', un
romanzo il cui inizio vede ''un gruppo di donne che per uscire
dall'ombra sono costrette a rubarsi la vita tra loro'' e che
segue le versioni famigliari pur sapendo che ''dietro ogni donna
di cui si tramanda il fallimento, c'è una ragazza che almeno una
volta è stata felice''.
La ricostruzione di un mondo e una tradizione femminile, anche
se ovviamente non mancano gli uomini, dal nonno corazziere al
padre, che lotta tra immaginazione e realtà, tra travisamenti
della memoria e documenti e alla fine di tale impegnativo
percorso l'autrice conclude umanamente: ''Per quale ragione
dovremmo tenere insieme la nostra vita e la nostra definizione?
Lasciateci libere di non farcela, né come madri, né come
artiste'', pur essendo invece le ultime pagine forti di una
coscienza, di pensieri e rivelazioni che danno senso al libro.
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