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Nadia Terranova, Quel che so di te è quel che so di me

Nadia Terranova, Quel che so di te è quel che so di me

affrontare e capire il passato famigliare per guardare al futuro

ROMA, 14 marzo 2025

Redazione ANSA

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- RIPRODUZIONE RISERVATA

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(di Paolo Petroni) NADIA TERRANOVA, ''QUELLO CHE SO DI TE'' (GUANDA, pp. 264 - 19,00 euro) - A Nadia Terranova nasce una figlia e questo avvenimento che guarda al futuro, allo stesso tempo la proietta nel passato, e come esprimesse la necessità, per andare avanti, di fare i conti con storie di famiglia che, evidentemente, hanno sempre fermentato dentro di lei: ''Mi illudo che potrò controllare gli anni che verranno, se sarò brava a scavare nel passato''. La ricostruzione riguarda in particolare la sua linea di ascendenza femminile, madre, nonna e specialmente bisnonna: ''Il nome con cui la chiamo è Venera, l'accento sulla prima sillaba e la a finale, come una dea o un pianeta che hanno deciso di barare e cambiare le carte in tavola''.
    E' già in questa annuncio inziale la dichiarazione che il suo raccontare è comunque opera letteraria, che delega a quella parte di finzione, che ricostruisce l'ignoto, la forza di dargli una verità e un senso nonostante tutto: ''scrivere è creare un incantesimo: se lo scrivo accade. Scrivere è spezzare un incantesimo: se lo scrivo, non accade più. E' cercare un varco tra mia madre che legge i mei libri e li sconfessa: non è vero che accadde così, te lo sei inventato, e mio marito che incalza: forza, inventalo meglio, inventalo di più''.
    Venera è stata chiusa in manicomio, nel 1928 per pochi giorni si scoprirà, ma il fatto resta un segno nefasto, un precedente pericoloso, e allora ecco che scatta questa indagine, perché questo è il voler andar oltre la mitologia famigliare, tra ricordi, testimonianze, documenti, visita dei luoghi, certezze e supposizioni, nel susseguirsi di carte che vengono alla luce e documentarsi su cure e medicinali d'epoca. La struttura e l'intima ragione è praticamente la stessa del bel libro di Maria Grazia Calandrone ''Dove non mi hai portata'' e quindi il segno ancora una volta di una necessità universale di sapere, in questi due casi con un tocco di poliziesco, di far luce quanto più c'è qualcosa che appare inquietante e non risolto nel nostro passato personale, perché è quello che sta alla base del nostro essere. Allora, dopo tanto vagare tra notizie non verificabili e riscontri possibili, ecco che arriva la voce stessa di Venera a parlarci, a raccontarci la sua verità attraverso quanto raccolto e trascritto in cartella clinica dal medico della clinica Mandalari, primo nucleo di quello che diverrà il manicomio di Messina.
    Il gioco emotivo del libro, quel che lo rende non un racconto privato, è nel continuo confronto e dissidio tra la donna mamma, che deve spezzare quella maledizione per cui si teme qualsiasi donna di famiglia possa impazzire, e la scrittrice, la creatrice che ne parla e vuole andar oltre per capire con la forza veritiera dell'arte, che si confronta con la Dok, che in rete accusa tutte le madri di ogni colpa con qualche eccesso semplificatorio.
    Del resto c'è realtà tragica e il suo versante simbolico. Venerà finisce rinchiusa perché non sopporta di aver perso la seconda figlia che aveva in grembo, cadendo sugli spalti di un Circo per rincorrere la prima. Venerà esce dai sogni della protagonista quando le nasce la figlia, ma da quel momento le compare sul viso una macchia scura, Il passaggio tra i 37 e i 38 anni, l'età in cui Venera viene rinchiusa, diventa una nefasta scadenza, segnando altre morti nella vita della famiglia, compreso il padre della narratrice. E così via in una serie di rimandi e situazioni, forse perché ''in Sicilia i fantasmi non se ne vanno, come i sentimenti più forti non lasciano più chi li ha provati una volta'' e che sarebbero anche altri, più allegri, ''se ora fossi l'autrice di un romanzo d'invenzione'', un romanzo il cui inizio vede ''un gruppo di donne che per uscire dall'ombra sono costrette a rubarsi la vita tra loro'' e che segue le versioni famigliari pur sapendo che ''dietro ogni donna di cui si tramanda il fallimento, c'è una ragazza che almeno una volta è stata felice''.
    La ricostruzione di un mondo e una tradizione femminile, anche se ovviamente non mancano gli uomini, dal nonno corazziere al padre, che lotta tra immaginazione e realtà, tra travisamenti della memoria e documenti e alla fine di tale impegnativo percorso l'autrice conclude umanamente: ''Per quale ragione dovremmo tenere insieme la nostra vita e la nostra definizione? Lasciateci libere di non farcela, né come madri, né come artiste'', pur essendo invece le ultime pagine forti di una coscienza, di pensieri e rivelazioni che danno senso al libro.
   
   

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