GIUSEPPE CERASA, SIPARIO SICILIANO. STORIE DI DONNE, PASSIONI, SEGRETI, MAFIA ED EROI SENZA GLORIA (Nino Aragno Editore, pp.180, 20 euro)
Le mani operose delle ricamatrici dei corredi e la tenacia delle maestre di scuola, donne consapevoli che hanno usato il lavoro come strumento di emancipazione da un mondo ottuso che le voleva sottomesse. I profumi e i sapori dei piatti della cucina più umile, le tradizioni di santi e madonne, la Palermo più popolare con i mercati colorati e le strade invase di immondizia, e quella dei tribunali e dei palazzi del potere. E ancora il primo giornale di Corleone, l'urto delle contestazioni del '68 su una società solo apparentemente immobile, la corruzione, l'omertà, i morti ammazzati, le collusioni tra politica e mafia. Ci sono le piccole e le grandi storie, ma soprattutto tutte le sfumature di un'isola benedetta e maledetta al tempo stesso nel libro "Sipario siciliano", scritto dal giornalista Giuseppe Cerasa e pubblicato da Aragno editore.
L'autore sfrutta la Sicilia come "un buco della serratura" da cui guardare le trasformazioni dell'Italia per offrire al lettore un grande affresco, in cui condensare circa 70 anni di storia, partendo dalla sua biografia. Eppure, non c'è "soltanto" la vita di Cerasa in queste pagine dense, colorate e ricche di dettagli da scoprire come se fossero sotto alla lente di un microscopio, tra personaggi, aneddoti, ricordi vividissimi e qualche momento di nostalgia. In "Sipario siciliano" c'è soprattutto lo spirito di una terra indomita e ferita, lacerata ieri come oggi da tante contraddizioni, ma capace di rivendicare il diritto di essere orgogliosa dei suoi uomini e delle sue donne migliori - la maggior parte - che con il lavoro hanno detto no all'antistato, alla cultura della morte, all'affarismo spudorato, che hanno sognato un domani diverso, che sono diventati "eroi senza gloria".
Un racconto appassionato e puntuale quello del libro, frutto del talento di un cronista che ha scelto di dare voce ai piccoli frammenti di vita quotidiana specchio dell'identità di un popolo. Lì, in quella Sicilia che per Sciascia era "metafora del mondo", Cerasa è cresciuto scegliendo la parola come strumento privilegiato per ribellarsi al malaffare, alla corruzione, alla cieca violenza criminale, alla mafia che soffoca ogni speranza.
Se nei primi capitoli prevale il desiderio di portare sulla pagina lo spettacolo intimo e malinconico della Sicilia della seconda metà del 900, quasi accompagnando per mano il lettore "dentro" le case di allora, andando avanti l'autore si fa più lucido, con una scrittura che da descrittiva, quasi romantica, diventa tagliente: qui emerge il piglio del giornalista, quello che si è fatto le ossa nel mitico quotidiano palermitano L'Ora prima di trasferirsi nella Capitale per lavorare a La Repubblica, che ha visto con i suoi occhi il volto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa "straziato e deturpato da una scarica di lupara", che ha camminato tra le macerie della strage di Capaci, dove si spense il sogno di legalità per cui Giovanni Falcone lottò fino all'ultimo giorno.
Nelle ultime pagine l'autore riserva parole d'affetto per altri due personaggi eccellenti, emblemi anche loro della Sicilia più bella: Andrea Camilleri, di cui ricorda i memorabili pranzi nella sua casa di Roma, lunghe ore a gustarsi racconti, prelibati piatti isolani e la "munnizza", una ricetta speciale che lo scrittore aveva cura di preparare in prima persona; e poi Sergio Mattarella, che dopo l'assassinio del fratello Piersanti abbracciò la missione dell'impegno contro le mafie e della salvaguardia della democrazia: Cerasa descrive non senza orgoglio l'incontro affettuoso avuto in anni recenti con il presidente, che fu suo professore nelle aule della facoltà di giurisprudenza all'università di Palermo, e quel caloroso abbraccio al Quirinale, simbolo di una amicizia lunga 45 anni.
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